✨ Cos’è la letteratura femminile? ✨
Ne abbiamo parlato con Sara Durantini, autrice di opere come Pampaluna e della prima biografia italiana ufficiale su Annie Ernaux, nonché profonda conoscitrice di alcune tra le più grandi scrittrici contemporanee e del passato.
Ecco la prima parte della nostra intervista, dove esploriamo insieme il senso profondo della letteratura femminile.
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Che cosa si intende generalmente per letteratura femminile? E tu come la intendi?
Sono due domande importanti che mi permettono di fare luce su una questione che emerge spesso, anzi oserei dire sempre, durante gli incontri e le presentazioni. Letteratura femminile come sguardo sul mondo, come approccio alla vita, ma anche come luogo dell’esplorazione, territorio dove l’immaginazione è strettamente interconnessa all’azione. Oggi si parla e si dibatte attorno alla letteratura femminile, espressione che viene talvolta contestata per il rischio di creare una categorizzazione limitante o stereotipata, nella quale confinare una scrittrice rispetto alla “letteratura universale” o maschile. A detta della scrivente, è importante, se non necessario, parlarne dal momento che è stata proprio la storia a silenziare la voce letteraria e creativa delle donne per troppo tempo.
Un legame storico e linguistico
Personalmente sono legata a questa espressione per diversi motivi. Il primo è storico e ontologico. Parlare di scrittura femminile significa, come già insegnava Helene Cixous, parlare di ciò che fa accadere questo tipo di scrittura, “scrivere delle donne e portare le donne alla scrittura, da cui sono state allontanate con la stessa violenza che dai loro corpi”, significa anche che la donna, mi rifaccio nuovamente a Cixous, acquisisce e successivamente costruisce la propria soggettività e quindi si immette nel testo, così come nel mondo e nella storia, a partire dai suoi valori. Sono legata a questa espressione anche per motivi linguistici. Per secoli si è operata una vera e propria soppressione della voce femminile, lasciando alle donne solo una lingua presa in prestito dal maschile. Eppure, la lingua originaria, che nasce dalla madre, un pre-linguaggio inconscio e profondamente influenzato dal rapporto col materno, rischia di venire lacerato, deturpato, con la crescita, nel momento in cui ci si inserisce nel mondo permeato da strutture fortemente patriarcali dove il modello prevalente è maschile (e rappresenta un certo tipo di maschio).
“Scrivere delle donne e portare le donne alla scrittura,
da cui sono state allontanate con la stessa violenza che dai loro corpi.”
Helene Cixous
Riflessioni di grandi autrici
Mi vengono di nuovo in aiuto alcune voci universalmente autorevoli e riconosciute come tali che hanno offerto una profonda riflessione su questi argomenti. Luce Irigaray parla della scrittura femminile come terreno in cui la donna, con la sua lingua e il suo corpo, può esplorare le molteplici possibilità cui non ha mai avuto accesso. Mentre Julia Kristeva, a questo proposito, parla di linguaggio semiotico in contrapposizione al linguaggio “del padre”.
Mi viene sempre in mente il discorso, illuminante e attuale, di Yourcenar in occasione del suo ingresso all’Académie: “mi avete accolta, come ho detto. Questo io incerto e fluttuante, questa entità la cui esistenza io stessa ho contestato, e che sento davvero delimitata solo dai pochi libri che ho scritto, eccola così com’è, è circondata, accompagnata da un gruppo invisibile di donne che avrebbe dovuto, forse, aver ricevuto questo onore molto prima, al punto che sono tentata di farmi da parte per far passare le loro ombre”.
Una scrittura che agisce e denuncia
In questo senso e per tutti questi motivi, la scrittura femminile si configura come una scrittura dell’agire, del fare, una scrittura che lotta per i diritti delle donne e che si fa veicolo di un cambiamento di genere. In questo risuona forte dentro di me l’insegnamento di Annie Ernaux, che ha saputo trasformare la scrittura (e l’autobiografia) in uno strumento di resistenza e di denuncia, restituendole la dignità e il potere che le sono propri.
seguiteci, a breve la seconda parte dell’intervista…
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Ecco la seconda parte dell’intervista a Sara Durantini…
Raccontare Annie Ernaux
Sei l’autrice della prima biografia italiana dedicata ad Annie Ernaux. Com’è stato raccontare la vita di questa donna e scrittrice straordinaria?
In un certo senso è stato come entrare nella sua vita, quella che avevo letto per molti anni quando ancora Ernaux non era conosciuta. Sono entrata in punta di piedi nella sua esistenza, consapevole di essermi avvicinata, come ho scritto nel libro, a colei che, ai miei occhi, è la Storia. E tutto questo ha avuto un impatto maggiore nel momento in cui l’ho incontrata.
Un incontro speciale.
Il tuo incontro con lei è stato come lo immaginavi?
Non so se l’ho immaginato nel modo in cui si è svolto realmente. L’incontro con lei è stato guidato da un progetto editoriale specifico ma anche da una forte umanità che anima Annie Ernaux e che ha continuato a emergere dalle email che ci scambiamo da quel momento. Lì, a casa sua, ha preso forma non solo quello che sarebbe diventato il libro ma tutto quello che lei ha rappresentato per me come donna (che scrive).
Quali sono le scrittrici che ti hanno ispirata di più?
Annie Ernaux è stata e continua a essere la scrittrice che ha orientato il mio percorso umano e professionale. Dal primo libro letto, “Non sono più uscita dalla mia notte”, uno dei pochi titoli tradotti negli anni ’90 e che faticosamente si trovavano in circolazione ancora nei primi anni 2000, la sua scrittura ha toccato corde profonde dentro di me.
Ci sono altre scrittrici che faccio rientrare tra quelle del mio ‘risveglio’ e che ho scoperto da giovanissima, comprendendone appieno l’intensità con il tempo e gli anni. Colette, Marguerite Duras, Anaïs Nin. Successivamente, e ne cito solo alcune, Virginia Woolf, Sylvia Plath, Simone de Beauvoir, Tove Ditlevsen…
L’originalità delle grandi autrici.
Riesci a condensare in breve il contributo di originalità che secondo te hanno dato alla letteratura?
Annie Ernaux ha apportato un contributo enorme alla letteratura trasformando l’esperienza personale in memoria collettiva, il genere autobiografico in auto-socio-biografia, servendosi di una lingua affilata, chirurgica, etnografica, fotografica, in grado diventare un’arma politica per dare voce e corpo alla lotta di genere e di classe. Per Colette, l’ha espresso magistralmente Julia Kristeva scrivendo di colei che “ha inventato il linguaggio per definire la strana osmosi tra i piaceri che alla leggera chiamiamo fisici e l’infinito del mondo” e ancora, colei che “dice l’indicibile e nomina l’innominabile”. L’apporto di Marguerite Duras riguarda tanto la letteratura quanto il cinema: sovverte i codici del romanzo creando una scrittura evocativa, sensoriale, minimalista, una scrittura che si fonda nel ricordo e nella memoria, e che si fa portatrice di una realtà sociale personale e collettiva al tempo stesso, dando corpo e voce, in un modo del tutto originale, al sentire femminile. “Il secondo sesso” di Simone de Beauvoir è una delle opere fondanti del femminismo, forse tra le più discusse, citate e raccontate. Non solo attraverso questo saggio ma anche come giornalista, Simone de Beauvoir ha fornito un imprescindibile contributo alla lotta per l’emancipazione femminile. E i suoi romanzi autobiografici sono il riflesso di uno sguardo femminile sul mondo, quello sguardo di cui sopra e con il quale molte scrittrici hanno fatto i conti (tra queste la stessa Annie Ernaux).
Anaïs Nin ha dato un contributo unico alla letteratura attraverso una scrittura introspettiva, che ha ridefinito il ruolo dell’intimità, della sessualità e dell’identità nella narrativa. La pubblicazione dei suoi libri e dei suoi diari ha trasformato il concetto stesso di autobiografia femminile per la profondità delle riflessioni psicologiche, filosofiche e poetiche sull’identità, sulle emozioni, facendo della sua stessa vita un’opera d’arte.
Sylvia Plath. A lei sono legata perché a lei è legata la ragazza che sono stata. Mi viene da riportare, fra tutte, una frase: “scrivo solo perché c’è una voce dentro di me che non tace” e quella scrittura genera non un ‘io’ ma tanti ‘io’, genera una lingua, la crea, la plasma. Rimando, per Plath, al lavoro accurato, fatto da Nadia Fusini circa la sua scrittura e il suo essere umano e poeta. E in Tove Ditlevsen, anche lei scomparsa prematuramente come Plath, riconosco l’antesignana dell’auto-socio-biografia esplorata da Annie Ernaux.
Da scrittrice, qual è il tuo obiettivo più ambizioso?
Più che un obiettivo, penso a un modo di abitare la scrittura che riflette il mio mondo interiore. Un mondo che, tuttavia, non appartiene soltanto a me, ma include anche chi vi si riconosce, chi lo condivide e ne fa parte. Vorrei continuare a vivere la scrittura in questo modo: nella sua forma più autentica, quella che mi rispecchia e che dà voce a tutto ciò che porto dentro e desidero raccontare.
Pampaluna
“Per molto tempo, sono stata un corpo senza storia. Dimenticata. Esclusa.”
La protagonista di Pampaluna, una bambina in cerca della sua voce negata, scopre la potenza della scrittura per affrancarsi da un mondo permeato dalle leggi del patriarcato, dai codici della tradizione e dell’educazione di classe, verso la conquista della propria libertà.
Sono gli anni della caduta del muro di Berlino, in televisione c’è Lady Oscar, alla radio passa Like a prayer.
Nuove narrazioni si intrecciano alle vecchie cambiando il profilo delle cose.
Disponibile anche in E-Book